Archeologia e comunicazione – anteprima (Paestum Workshop 2012)

Abbiamo frantumato l'antico vaso

  Archeologia e comunicazione: come e perché costruire un’opinione pubblica correttamente informata per la ricerca archeologica e per l’economia dei beni culturali

 Già alcuni interventi di questa giornata, e della prossima, hanno avuto o avranno per tema, rispettivamente, la comunicazione in archeologia, con riferimento ai suoi strumenti e alle sue modalità, oppure l’economia dei beni culturali e la figura professionale di chi fa archeologia.

  Le riflessioni che vi propongo, da parte mia, riguarderanno invece la necessità di una corretta ed efficace comunicazione sulla natura del mestiere archeologico e della ricerca archeologica, comunicazione indispensabile al fine delle costruzione di un’opinione pubblica correttamente informata, tale da costituire, a sua volta, il presupposto culturale di azioni politiche efficaci per la realizzazione di un’economia dei beni culturali, per un’acquisizione dell’archeologia come professione e per un suo riconoscimento come ramo necessario della ricerca scientifica.

  Parlare di economia dei beni culturali e di ricerca archeologica sembra fuori luogo e fuori tempo in uno scenario in cui la tendenza delle scelte politiche è quella dello smantellamento della pubblica istruzione e della ricerca, e in cui il settore del patrimonio culturale è vissuto come un peso e un ambito di attività improduttive da non coltivare. Eppure nello scorso mese di ottobre si è svolto a Roma il Convegno dedicato alla messa a punto dell’esperienza europea inaugurata dall’adozione della Convenzione di Malta, e al tema dell’archeologia preventiva, e a Firenze  si è tenuto il primo Congresso dedicato all’Archeologia pubblica.

    Dunque, se invertire la tendenza delle scelte politiche sembrerebbe una prospettiva irrealistica, c’è chi non rinuncia all’obiettivo, ma riuscire far passare il concetto di patrimonio culturale come bene comune, e dell’archeologia come attività ineludibile, e anzi come attività produttiva, comporta un rovesciamento della prospettiva con cui chi non è specialista guarda per lo più al patrimonio culturale, e alle ricerca archeologica in particolare. Per operare questo rovesciamento bisogna persuadere non soltanto coloro di volta in volta compiono scelte politiche, ma anche e soprattutto la coscienza comune e diffusa della società intorno a noi, che dei concetti in questione sembra essere del tutto ignara: la disinformazione dell’opinione pubblica, infatti, se riflette l’inerzia e l’inadeguatezza dei livelli politici decisionali, non può che rinforzarle a sua volta.

  Qualche tempo fa qualcuno mi ha obiettato che non c’è bisogno della consapevolezza di un’opinione pubblica per far agire il concetto di ricerca in campo chimico, biologico, ingegneristico, quindi, a che serve un’opinione pubblica in archeologia? Io direi invece che è appunto questo il problema: il fatto che sia necessario che esista chi si dedica alla chimica, alla biologia, all’ingegneria, in tutti gli ambiti di esercizio di queste scienze, ricerca o professione, i quali ambiti non a caso più spesso si intersecano quando non coincidono, è considerato fatto ovvio, mentre ciò non è considerato altrettanto ovvio per l’archeologia, e più in generale per tutte scienze e le attività che hanno a che fare con il patrimonio culturale.

   Questa constatazione vorrà dire qualcosa, e a mio avviso significa che fino a quando questa convinzione diffusa non cambierà, la vita di chi si occupa di patrimonio archeologico come attività lavorativa sarà sempre precaria, come saranno stentati i risultati della sua attività; ma se non saremo noi a modificare questa convinzione diffusa, nessuno lo farà per noi, neppure coloro che pensano di amare la cultura, e tanto meno coloro che pensano di essere appassionati di archeologia, e proprio perché, nella maggior parte dei casi, le rispettive prospettive con cui si guarda all’archeologia e al patrimonio culturale sono incongruenti e inconciliabili.

 Per verificare queste affermazioni passiamo rapidamente in rassegna gli atteggiamenti più frequenti: abbiamo tutte e tutti presenti le comuni modalità e le impostazioni ricorrenti con cui vengono affrontati i temi archeologici dai mezzi di comunicazione di massa, tanto nel campo delle notizie, quanto in quello della divulgazione o, più spesso, della pseudo divulgazione: una delle prospettive più classiche è quella della scoperta eclatante, della pentola del tesoro o del rinvenimento eccezionale, possibilmente consistente in un oggetto isolato.  A questa prospettiva si collegano due esigenze emotive, quella che ruota intorno al “topos” del mistero, risolto dalla straordinaria scoperta,  e quella che per brevità definirei estetico-contemplativa, ovvero l’esigenza dell’ammirazione per il bell’oggetto, bello se non altro poiché raro ed esotico in quanto antico.

  La stessa impostazione estetica è quella che sta alla fonte di tanti meritori appelli che vengono di quando in quando lanciati per salvare il patrimonio, o per salvare questo o quel pezzo di patrimonio culturale, o di patrimonio archeologico in particolare. Quest’ultimo atteggiamento, benché ispirato dalle migliori intenzioni, comporta due conseguenze alquanto controproducenti dal punto di vista di chi fa archeologia: la prima è quella di confermare una visione della tutela come di un’attività rivolta a preservare singoli oggetti eccezionali, di qualsiasi tipo siano questi oggetti, dai manufatti, ai paesaggi, e in questa conseguenza l’atteggiamento estetico produce gli stessi risultati della notizia sensazionalistica, e cioè: il patrimonio archeologico coincide con l’oggetto raro ed esotico da individuare e da preservare.

  La seconda conseguenza di questo atteggiamento è invece sul piano della compatibilità socio-economico-culturale: la conservazione e la tutela sembrano ispirate da sensibilità verso ciò che è esteticamente apprezzabile ma che, dal punto di vista economico, si traduce in una perdita, in un investimento senza ritorno e, al tempo stesso, conservazione e tutela sembrano destinate ad essere percepite come influenti esclusivamente in vista di una qualità della vita che interessa un élite, uno strato di privilegiati dallo scarso senso pratico. E’ questo il quadro in cui si inserisce il concetto della cultura che non si mangia, o del carmina non dant panem: ma c’è di peggio, come ben sappiamo, l’archeologia, da attività inutile se non al godimento estetico, e di poche anime sensibili o, nel migliore dei casi, attività volta al soddifacimento di curiosità antiquarie, e quindi comunque attività superflua e improduttiva, e quindi fonte di perdita, può diventare, nella percezione diffusa, un ostacolo allo svolgimento delle più varie attività, considerate produttive, della vita associata: e in questo caso l’archeologia diventa ciò che impedisce l’inizio o la prosecuzione di opere pubbliche o private, l’alienazione di beni sottoposti a vincolo, la disponibilità di altri beni, e così via.

  Dunque, come vediamo sono diversi i fronti su cui comunicare i contenuti dell’archeologia e la sua necessità.

   Chi fa archeologia non si stanca di ripetere che lo scopo della ricerca archeologica non è il recupero di oggetti preziosi, o preziosi in quanto esotici, da collocare in una vetrina perché vengano ammirati o perché suscitino curiosità per la loro antichità, e che questo, invece, è lo scopo del collezionista di antichità. E che lo scopo della ricerca archeologica è quello di indagare scientificamente i contesti materiali per trarne un’interpretazione storica. E che se qualora decidessimo che per la nostra comunità, locale, nazionale, universale, è vitale la conoscenza del nostro passato e la disponibilità comune dei documenti che ci permettono di ricostruirlo, allora acquista senso, anche per chi non è specialista, la gestione comune, sottratta all’arbitrio privato, di un patrimonio percepibile come ugualmente inalienabile di quello ambientale o dell’acqua, come mi ha suggerito con un efficace paragone una collega qui presente.

  Pensiamo ai due fenomeni che maggiormente danneggiano il patrimonio archeologico, e cioè gli scavi clandestini e le opere di edilizia pubblica o privata condotte al di fuori delle regole, quelle dell’archeologia preventiva e quelle della tutela in generale, o condotte derogando alla loro corretta applicazione: potremmo ipotizzare che, in quest’ultimo caso, il riuscire a formare un’opinione pubblica consapevole del senso della conoscenza archeologica, e insieme delle sue implicazioni economiche positive, comporterebbe il sorgere di un interesse diffuso per la partecipazione alla sorveglianza del proprio territorio e alla sua gestione, proprio come è accaduto per gli episodi di tentato scempio ambientale (le varie discariche, Villa Adriana) che hanno visto la mobilitazione delle popolazioni locali, mobilitazione che si è rivelata in qualche caso efficace, e in tutti i casi comunque significativa.

 Nel primo caso, invece, quello dello scavo clandestino, divenuto ormai un settore imprenditoriale illegale pianificato e gestito da reti internazionali: personalmente sono convinta che  quanto più riusciremo a comunicare il concetto che lo scopo della ricerca archeologica non è impossessarsi di oggetti rari, tanto più il possesso dell’oggetto antico perderà il valore di simbolo di stato.

  Ma, soprattutto, non sarebbe impossibile ipotizzare un futuro in cui le popolazioni locali si sentissero colpite direttamente da queste attività, e percepissero la depredazione e l’irreversibile sconvolgimento del patrimonio archeologico come una depredazione del loro stesso patrimonio.

 E’ evidente che i nostri concetti, anche se adeguatamente  comunicati, a livelli diversi, non potranno passare a tutti, ma sarà sufficiente, come sempre accade, che passino ad un numero consistente di persone, capaci di incidere, a loro volta, su i contenuti di una cultura di massa.

   I presupposti di metodo chi fa archeologia ha già cominciato ad approntarli: si pensi all’esperienza raccolta nel volume on line “Comunicare l’archeologia”, nel blog Journalism and Archaeological Communication, ai siti on line gestiti da archeologhe e archeologi che si occupano di archeologia e mass media, ai siti che si occupano di divulgazione antichistica e archeologica gestiti da specialisti delle discipline. Adesso si tratta di passare dalla rete ai grandi mezzi comunicazione di massa, che sono ancora oggi televisioni e giornali, mezzi che, come sappiamo, formano un sistema chiuso in cui l’uno alimento l’altro, anche se spesso a senso unico. Non sarà facile, ma ci dobbiamo provare.

Paestum 17 novembre 2012                                                     Paola Mazzei