11 gennaio 2013 alle ore 23:40
Ripubblico qui un commento scritto nel maggio 2010, per http://femminileplurale.wordpress.com/
Mi ricollego ad uno degli interventi: avete notato che per molti nomi che designano mestieri o ruoli non si è mai posto il problema del maschile/femminile? Pensiamo a contadino/contadina, oppure attore/attrice, oppure, più vicini a noi storicamente, maestro/maestra, impiegato/impiegata, insegnante/insegnante. Si tratta, in alcuni casi, di nomi di mestieri collocati “in basso” nella scala sociale, almeno all’origine: è il caso di contadino/contadina, oppure attore/attrice. Anche quando si passa a nomi che designano professioni o ruoli connotati “intellettualmente” e, quindi, collocati più “in alto” nella graduatoria sociale, come maestro/maestra, oppure impiegato/impiegata, la grammatica italiana continua ad essere vissuta correttamente. Ma si tratta ancora di nomi designanti ruoli comunque subordinati a qualche altro ruolo nella scala sociale e istituzionale: l’impiegato/a avrà sempre un ruolo che lo/a dirige, e il/la maestro/a avrà sempre un ruolo che ne presiede l’operato (preside). Così per i ruoli professionali che, se ricoperti da donne, si intendono non socialmente autonomi e rilevanti: quale pittrice, o quale scrittrice, si è mai mantenuta con il suo lavoro? E se ci sono state eccezioni, sono state, appunto, eccezioni: l’importante è che non siano diventate la regola. Mentre invece per altri nomi, che designano professioni o ruoli indipendenti o direttivi, oppure rappresentativi, socialmente riconosciuti come prestigiosi e remunerativi, ai quali le donne sono arrivate più tardi, scatta il panico grammaticale, e ci si dimentica che se il femminile di impiegato fa impiegata, così il femminile di magistrato farà magistrata, quello di avvocato farà avvocata, quello di deputato farà deputata; e che se il femminile di attore fa attrice, anche il femminile di senatore farà senatrice. E così il femminile di medico farà medica e quello di sindaco farà sindaca. Le reazioni paniche sono due: una di essa introduce, a segnalare la “stranezza”, rappresentata dall’inusitata presenza di una donna ad occupare ruoli finora maschili, una terminazione in -essa, che marca la mostruosità costituita da una donna che vuole agire alcunché di finora riservato ai maschi: per cui “una” presidente, che è come un’insegnante (con l’apostrofo dell’elisione di un-a), diventa una presidentessa, un’avvocata diventa un’avvocatessa, e così via.
La seconda reazione è mimetica e, talvolta, adottata proprio dalle donne, per cui si usa il maschile laddove c’è già bell’e pronto in italiano, il femminile: è il caso delle tante donne-avvocato, donne-magistrato, oppure dell’espressione “il presidente Signora Tale dei Tali”, che spuntano dove nessuno penserebbe di dire donna-impiegato, oppure di dire: “il mio insegnante Sig. ra Tale” invece che “la mia insegnante Sig.ra etc.”. E’ vero, è anche una questione di equità sociale, ma è una questione di equità di genere: l’allarme grammaticale scatta infatti quando le donne superano una certa asticella, invadendendo i campi in cui si collocano certe funzioni “alte” nella società. “Un’insegnante”, finché è rimasta una “maestra”, non dava tanto fastidio, e la grammatica non ne risentiva: i problemi sono cominciati quando ha voluto insegnare alle scuole superiori oppure all’università. E allora, se per fare questo ha dovuto munirsi di una laurea, sarà diventata una dottor-essa, e poi, passata alla docenza, una professor-essa: la stranezza bisognava pure marcarla con la “strana” terminazione -essa. Eppure il femminile di dottore farebbe “dottrice”, e infatti in latino poetico esiste “doctrix, doctricis”, che indica colei che insegna qualcosa: ma più forte del precedente linguistico è stato il maschilismo della chiesa, che ha tentato di neutralizzare il genere femminile di Caterina da Siena e di Teresa d’Avila, facendone maschili “dottori” della Chiesa. E così, una volta “laureate”, correttamente al femminile, ci siamo ritrovate tutte “dottori”, al maschile. Diverso il caso del femminile di professore, o di assessore: in questo caso, i rispettivi femminili in italiano non potevano essere regolari, nel senso che la fonetica della lingua italiana, se non fa difficoltà per un’att-rice, impedisce di pronunciare “profess-rice”, oppure “assess-rice”. In questo caso, però, esiste l’alternativa creata dall’uso storico della lingua, che ha adottato, secoli fa, una terminazione irregolare per il femminile di questo tipo di nomi, ricalcandolo dal femminile di un altro tipo di nomi: così la moglie del “fatt-ore”, che non avrebbe potuto essere la fatt-rice (che invece era la mucca) si chiamava “fatt-ora”, allo stesso modo che la moglie del mass-aro, si chiamava massa-ara. Come si vede siamo ancora “in basso” nella scala sociale, vicini alla lavorazione della terra, dove le donne, se anche avevano qualche responsabiiltà, non potevano dare tanto fastidio. Ma questa invenzione linguistica dei nostri antenati contadini, o del notaio del paese, ci può servire oggi per fare il femminile di dottore, che in luogo dell’esotico dottrice potrà fare dottora, o il femminile di professore e di assessore, che in luogo di profess-rice o assess-rice (impossibili a pronunciarsi) potranno fare profess-ora e assess-ora. Scusatemi se sto occupando tanto spazio, ma è che vorrei dire che è sicuramente vero che è il linguaggio che segue l’evoluzione della società, ma è anche vero che questa sequenza non è automatica, come dimostra la resistenza dell’uso linguistico, che corrisponde alla resistenza della cultura, per cui ad una donna-monstrum (ma che, vuoi fare un concorso in magistratura? sei matta? Impossibile! fino al 1963, in Italia) corrisponde un “monstrum” grammaticale, cioè un errore di grammatica che segnala la caparbia indisponibiltà a riconoscere la normalità delle nuove situazioni, cioè l’indisponibilità ad accettare i cambiamenti avvenuti o in corso.
Per concludere: ci è andata meglio con la parola “giudice”, che tutti usano, correttamente, come una parola uguale per il maschile e per il femminile; ma forse ci è andata meglio perché c’erano i precedenti: Debora, nell’ebraico libro dei Giudici, è “giudice” di Israele e, più vicina a noi, Eleonora d’Arborea è “giudice” di Gallura. Anche se loro erano “eccezioni”, e la loro carica non si limitava alla giurisdzione, la loro “eccezionale” esistenza ha salvato dall’ “-essa” tutte le giudici a venire di tutti i tribunali d’Italia. Alla fine, tanto per rimanere in tema di eccezioni, anche gli antichi romani si permettevano di osservare le regole grammaticali, fintanto che il fatto non incideva sull’ordine costituto, per cui, se Apollo era “Medicus”, Minerva poteva essere “Medica”: ma tanto lei era una dea, e non sovvertiva le regole della società umana; oggi, però, inviterei tutte e tutti, ad attribuire lo stesso titolo alle laureate in medicina che abbiano superato l’esame di stato.
pm
Aggiornamento bibliografico: oggi in http://giulia.globalist.it/giuliaglobalistit/Downloads/Donne_grammatica_media.pdf un manualetto piccino piccino, con cui potete risolvere entuali incertezze e conoscere la bibliografia precedente.
Aggiornamento 2: quando ho scritto le ultime righe di questo testo non avevo ancora letto il bel libretto di Francesca Cenerini intitolato “La donna romana”, 2009, che usa il materiale epigrafico del mondo romano – l’autrice è epigrafista – all’interno del quale troviamo attestata la qualifica professionale di medica attribuita ad alcune donne che esercitavano la medicina, come pure la qualifica di ministrae di un culto, insieme a quella pù ovvia di magistrae di un collegio sacerdotale. Una medica e obstetrix la conosciamo pure da un’iscrizione di Pozzuoli pubblicata di recente in un articolo https://www.academia.edu/37692376/Medica_obstetrix_iatromea._Note_in_margine_a_uniscrizione_inedita_da_Puteoli._Only_the_first_few_pages?fbclid=IwAR21V2xnm3WhHkWhNczYQY9HLmMtEY5GAPWWvI99nGrMaozeDzuEnORMc5w
dove troverete anche le attestazioni letterarie, in greco e in latino, delle due qualifiche